sabato 30 ottobre 2010

Si fa tardi la sera

Giovedì, ore 20, dipartimento di Nanofabrication.

I corridoi sono silenziosi e vuoti, gialli al neon, gialli di piastrelle e pareti. La notte riempie i finestroni che affacciano sulla valle. Le porte di molti uffici sono chiuse; in quelli ancora aperti la lampada sulla scrivania illumina un angolo buio. Nel silenzio, il refrigeratore dei distributori automatici compie un ciclo di pompaggio. Alcuni ping di skype arrivano da un computer lasciato aperto. Il ronzio del neon pare forte a quest'ora.
Carla ha i capelli raccolti, cammina piano. Ha preso un tè alla macchinetta, saluta con voce delicata, cammina piano, pensierosa, lungo la linea che conosce a perfezione fino al suo ufficio. Remo entra e chiede con accento romagnolo: “Dov'è Enzo?”, “È andato” rispondo "un impegno in città", “No!” dice e se ne va a passo silenzioso. Voci arrivano dal corridoio, uno è Gobind, indiano, seguito da Francesco, calabrese. Discutono di misure, di tecniche “vuoi fare così...” e camminano a passi lunghi e spediti. 

Silenzio di nuovo. Il refrigeratore ha smesso di borbottare. Le aule open space per i dottorandi sono vuote, tranne un ragazzo seduto a una scrivania in fondo con le mani dietro la nuca, le spalle rivolte verso la porta. Sopra ai tavoli del pranzo restano il barattolo del sale, un piatto di plastica e della pellicola. Passi pesanti ora, qualcuno corre, sfreccia, frena, gira l'angolo verso l'altro corridoio, poi cammina e torna il silenzio, il ronzio dei neon, il motore dei distributori. 
 
Rosanna è al telefono, sorride, racconta, ascolta, dice “niente” con la e aperta, “anche io” dice e saluta. Due ragazzi con accento inglese passano buttando l'occhio dentro l'ufficio; poi altri due camminano nel verso opposto, indossano i cappotti, gli zaini e le borse. Uno è robusto, ha la barba incolta, il capello lungo e l'andatura dinoccolata e l'altro è biondo, alto, il viso dai lineamenti ossuti, più composto; non parlano. Dottorandi.

Ritorna il rumore: il ping dell'ascensore, la stampante e i fogli, il clack delle porte antipanico che si chiudono. Qualcuno in fondo ai corridoi è uscito. Alberto fa capolino con tono genovese: “Ti ricordi a che ora parte la navetta domani mattina?”, alle 8 o alle 9, dico. Lui prenderà quella delle 8, uscendo da casa mezz'ora prima e arrivando in ufficio mezz'ora dopo. Meno di dieci ore di pausa. Qui tutti hanno ritmi serrati. Si arriva presto, si va via tardi, trascorrendo la giornata tra misure di laboratorio, riunioni di aggiornamento, seminari di approfondimento e ospiti che arrivano d'ogni dove. La pausa pranzo è di un'ora, la pausa caffè di una decina di minuti – è in questi momenti che il vociare si fa forte e nei corridoi si fa folla; i ricercatori parlano, ridono, si scambiano commenti e notizie sul lavoro, si riuniscono e conoscono - la mente non riposa, nemmeno quando si mangia. 
 
Manola entra in ufficio, ha il volto stanco, gli occhi arrossati e chiede se è ora di andare: “Ha finito Francesco?” No, Francesco è ancora al computer. “Non mi tornano i conti per queste immagini e domani le devo consegnare ad Enzo” dice. “Andiamo però, lavorerò dopo cena”. Quella notte rimarrà sveglio fino all'una, si sveglierà alle 6.45, e consegnerà le immagini come programmato.

Prendiamo le nostre cose, spegniamo le luci, chiudiamo le porte, usciamo. Sono le 20.30 e da via Morego Genova è lontana.

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